Si era da poco svegliata e vagava intontita per il lungo corridoio pieno di luce. Era inverno ormai, ma i finestroni che davano sul cortile interno proiettavano i loro freddi bagliori mattutini con regolarità già da qualche settimana. Con gli occhi chiusi camminò per un po’ fino a fermarsi davanti alla fila degli armadietti. Per anni le era stato assegnato lo stesso e per altrettanto tempo si era esercitata ad arrivarci serrando le palpebre. Era una sfida che aveva vinto con soddisfazione, escludendo tutti gli incidenti di percorso per ottenere la vittoria: il piede gonfio, lo zigomo tumefatto, il naso scorticato, che le importava?
Tirò l’anta, tastando la presenza della sua divisa ancora in quello stato di cecità imposta, ma fu distratta d’improvviso da un rumore che sembrava ricordarle un clacson e tuttavia era più intenso.
Si affacciò emozionata ad una delle tante finestre.
Un camion! Un camion nel cortile!
Non sapeva se battere le mani per la sorpresa o fare un passo indietro, come se l’insolito evento rappresentasse una minaccia.
Il cortile presto si affollò di bambini, minuscole creature scalze e ancora in pigiama incuranti del freddo e della neve, che correvano impazzite per guardare il gigante rumoroso e donne urlanti con capelli arruffati. Qualcuno gridava e saltava in preda all’agitazione, altri piangevano, altri stringevano la maglia del pigiama con la manina violacea sul petto, sentendosi in dovere di mostrare gratitudine.
Strano il mondo, per anni era rimasto in silenzio, indifferente al loro dramma di creature anonime e reiette, finite in un buco nero che ne risucchiava a migliaia e al primo squillo di tromba per un regime morente, eccolo, si presentava! Con una bambola. Ah, e uno spicchio d’arancia, per essere precisi.
Rimase sola. L’edificio si era svuotato.
Arretrò di un passo, quasi a voler creare un muro di distanza tra lei e ciò che accadeva fuori. Le lastre di vetro non erano abbastanza robuste e si sentiva esposta, fragile e trasparente come loro.
Non si mosse, ma ascoltando con attenzione le voci dall’esterno capì che erano arrivati gli aiuti. Giocattoli, Olanda, Italia, frutta, percepì queste parole distintamente.
C’era la guerra, lo diceva sempre la televisione la domenica dopo pranzo, nell’unica ora che le era permesso guardarla. Considerò anche questo avvenimento una seccatura in più, a lei non dispiaceva ridere guardando i cartoni di Tom e Jerry, trasmessi da anni in repliche infinite. Cosa avrebbe cambiato la guerra nella sua vita, se ogni singolo giorno era in guerra con se stesso, per portarsi a conclusione senza troppo ferire o annientare qualcosa?
La guerra nei Balcani, il crollo di uno dei più efferati regimi dell’Est… che ne sapevano quei signori dell’Est?
Lei sapeva che lì nasceva il sole, avrebbe voluto trattenerlo nel pugno e farlo girare su se stesso, perché la luce non finisse più quando la notte somigliava troppo all’oblio di una morte apparente, con il suo sonno imposto dalla forza brutale di prove invincibili.
Curvò un angolo della bocca, lasciando l’altro sospeso, non ancora decisa sulla piega da dare a quella giornata insolita.
Il suo ritmo, che era solitamente frenetico, andava a rilento, tutto intorno girava vorticosamente, ma non se ne curava, lasciava che ogni cosa accadesse, che il fiume delle ore la trascinasse senza fare alcuna resistenza. La molle arrendevolezza amava sperimentarla con progressi sempre più evidenti, provocando quella parte di lei che rifiutava ogni fatalismo, volendo sempre e soltanto sentirsi a cavalcioni di un destino imbizzarrito da domare e guidare con fermezza.
Poi interruppe il distacco davanti ad un oggetto che le veniva dato con un gesto frettoloso e di stizza nelle mani: una bambola!
A capo chino ringraziò la faccia arcigna che aveva davanti. Non ne aveva mai viste di diverse. Allungò nuovamente la mano per afferrare uno spicchio molliccio e profumato servito dentro un piatto. Lo portò avidamente alle labbra.
Era dolce, era amaro, come il resto.
Anche gli altri avevano avuto dei doni. Tutti allineati nel corridoio ormai illuminato dalle lampade attendevano con smorfie d’impazienza il proprio regalo.
Una bambola… quasi non riusciva a pronunciare il nome di quello strano affare biondo e con i vestiti luccicanti.
Quando fu dato il cenno per rompere le righe e tutti i soldatini si dispersero, si nascose sotto il letto.
Nella penombra faceva meno paura. Toccò ogni centimetro delle gambe e del vestito, provò a farsi il solletico sul viso con i capelli. Era perfetta.
Le montò dentro un odio primordiale, fino a sentirlo ronzare nelle orecchie.
Uscì da sotto il letto, quando gli altri erano ancora nella stanza dell’albero di Natale, per cantare e ringraziare della magnifica sorpresa, si avvicinò con cautela allo specchio e la mise accanto al volto.
I suoi capelli erano corvini e radi, rasati alla rinfusa con ciocche più lunghe qua e là anarchiche e disordinate, aveva le labbra sottili e incolori, le guance scavate. Indossava sempre lo stesso pigiama per una stagione, bianco con fiori verdi e azzurri, materiale sintetico misto a bruciore autentico. Si scrutò le sporgenze del corpo secco e asciutto, ogni muscolo minuto e nervoso sembrò tendersi. Girò rassegnata gli occhi nelle orbite, ma sapeva che in mezzo scintillavano due fiamme troppo ardenti e badava bene a non mostrarle a nessuno.
Entrò nella stanza dove cantavano. Guardò con disgusto l’albero al centro del dormitorio. Era bello, era pieno di bastoncini di zucchero colorati e lei non li avrebbe mai assaggiati, non era permesso. In mezzo ai bambini mancava una voce, un tono più su, una carezza più giù, una carezza ovunque su quei corpi celesti così soli, smarriti dall’universo dell’amore. Avanzò e strappò i bastoncini, li gettò a terra con disprezzo, li calpestò saltando a due piedi come in preda al delirio febbrile. Quando si ridussero in una poltiglia informe, si asciugò il sudore sulla fronte e si congratulò con se stessa.
Vide una bambina piangere, a lei non era toccato nessun regalo o forse lo aveva perso. Afferrò la bambola che aveva appoggiato sul letto e la invitò sorridendo a prenderla.
Spensero le luci.
L’indomani si strinse nel lenzuolo più forte, temendo una punizione, ma sentì lamenti, pianti e accuse.
L’hai presa tu, sei stato tu, è stata lei!
Si domandò se non stesse facendo un bizzarro sogno. No, era la realtà di ogni giorno, con la sua beffa più scaltra.
Tutti i giocattoli amorevolmente riposti sotto i cuscini la notte precedente erano spariti, non ne era rimasta traccia, se non nelle righe sulle guance arrossate di volti increduli e sgomenti.
Lei non aveva niente da recriminare, non le importava niente della bambola, non era più sua, non era più di nessuno, non era mai stata di nessuno. Appena l’illusione di aver ricevuto qualcosa era stata sufficiente, ora quei giocattoli trafugati con la complicità della notte facevano felici altri bambini, probabilmente quelli di città. E i precedenti padroni nel più totale smarrimento dovevano assolutamente scontare una pena per aver rubato i loro stessi doni, per non averne avuto cura mentre dormivano o per chissà quali altre oscure ragioni… qualcuna l’avrebbero trovata.
Era chiaro che se avevano un destino, per quanto non ci credesse, questo doveva avere tutte le rotelle fuori posto. Occorreva aggiustare l’ingranaggio, prima o poi.
Se ovunque funzionasse così o no, non lo sapeva, ma ancora una volta sollevò il braccio al cielo, afferrò il sole e lo portò da est ad ovest per centinaia di volte, sbattendolo come uno straccio con rabbia e con la stessa ferocia con cui si batte il tempo nella sua corsa, semplicemente, lasciandolo correre da solo. Respirò infine, stirando con lungo sforzo le costole per coprire una fitta nello sterno che conosceva bene e si gettò su un cumulo bianco senza peso: nessun peso sulle gambe, sul petto ossuto, sulla testa o sul cuore. E va bene, era stata colta impreparata, che sciocca era stata a lasciarsi fregare.
Come poteva il mondo comprare il suo perdono con una bambola?
Aveva abbracciato tante volte un pezzo di legno rivestito con lembi di stoffa, quella era una vera bambola. Non mentiva, non spariva, restava il duro contatto incollato alla pelle e sotto la corteccia c’era ancora l’ombra di una linfa vitale che non aveva bugie da raccontare.
Vide un aeroplano passare, allungò il braccio e poi le dita immaginando di afferrarlo. Socchiuse le palpebre brucianti e si lasciò trasportare fra le nuvole.

Mirela Stillitano