Venuta da chissà dove, con gli occhi stupiti di chi si risveglia da un lungo sonno, si ritrovò con indosso un cappotto corto di pelliccia finta, saltellava e piroettava le gambe a passo di danza; aveva una canzone nella mente tutta sua, con le note impigliate nelle ciglia che coprivano e scoprivano lo sguardo seguendone il ritmo e una piega distesa sul viso in un sorriso ingenuo e largo.
Così prese coscienza d’essere, squarciando un velo nero per portarsi alla luce, dall’oblio alla vita. Faceva caldo, qualcuno la rimproverava di non aver aspettato l’inverno, continuava a saltellare, illuminando le pareti di due scarne stanze, come un quadro che prendeva forma sulla tela bianca, colore dopo colore faceva emergere qualcosa che prima non c’era. Il mondo la dipingeva o lei teneva in mano un pennello consunto e una tavolozza sporca, perché tutto sembrava già vecchio e distrutto, nonostante lo sforzo.
Il volto che la chiamava da quale epoca veniva? La furia del tempo si era abbattuta su ogni piega, sulle guance scavate, sulle dita piegate, violacee e irrigidite. Le labbra erano state risucchiate nella bocca sdentata.
Si guardarono, poi la vecchia si lasciò attraversare dai suoi occhi con la confidenza di chi ama, di chi sa cosa sia la cura e la fatica dell’amore.
La bambina fece allora una linguaccia irriverente, strizzando l’occhio, e scappò fuori con la sua pelliccia rosa e la gioia di chi sapeva fare un tutto dal niente.
Somigliava tanto alla felicità il rimprovero poco convinto della voce ancora dentro, la morbidezza dell’abbraccio denso del tessuto sulla pelle, il sole in contrasto che reclamava acqua per la terra riarsa, l’uomo nel cortile che salutava muovendo la mano per richiamarla. Non conosceva ancora le parole per dare un nome a tutto ciò che la circondava, aveva nella bocca il sapore rancido e latteo dell’infanzia, la fantasia accesa prima del disincanto nascosto tra giochi di calligrafia e cortei di numeri ai quali inchinarsi, per poi stringerli con forza dopo averli a lungo temuti.
L’uomo si avvicinò, la spogliò del suo scudo rosa, che affidò alla vecchia.
Li osservò intimorita. Non le piaceva la ruga sulla fronte di entrambi, gli occhi della vecchia riversavano cascate sulle guance, le toccò sentendo l’acqua salata sulle dita.
Appena venuta al mondo, atterrata dal nulla nel suo mondo, dall’incoscienza alla consapevolezza della vita, che già la sfiorava il dubbio di avere sbagliato posto.
Si strinse ai tanti strati di gonna della vecchia, mentre l’uomo la tirava per trascinarla via. Si sentì dopo lunga resistenza esausta, mollando la presa e tenendo fra le dita un pezzo di stoffa strappata.
Serrò le palpebre, sparendo altrove.
C’era ancora il sole quando le riaprì, la sua vezzosa pelliccia era sparita, il cortile era diverso e più ampio. L’uomo la teneva per le spalle spingendola a muovere qualche passo avanti. Le carezzava di tanto in tanto la testa piena di morbidi capelli che non conoscevano pettine e scendevano comunque ordinati sulle spalle.
Vide una donna avanzare verso di loro e sentì il cuore slegarsi da ogni ritmo, battere e risuonare come una sveglia d’allarme, una tromba di pericolo nella battaglia.
Ebbe paura e si nascose dietro l’uomo.
La donna l’afferrò dal braccio e la tirò verso di sé. Scalciò, urlò, sentì le unghie infilarsi dentro le ossa fino a lacerarle la carne. La tenne così, ferma e con gli occhi rivolti verso le spalle di suo padre che si allontanava.
Il movimento lento della schiena che incerta faceva il suo mezzo giro, tra la salvezza e il baratro, fermandosi al confine tra l’una e l’altro, con gli occhi raggelati e spenti di chi non ha altra scelta, fu la prima severa lezione di tradimento.
E di perdono.
Mirela Stillitano
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