In morte del fratello GiovanniUn dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta.

Ugo Foscolo, nato Niccolò Foscolo (Zante, 6 febbraio 1778 – Londra, 10 settembre 1827), è stato un poeta, scrittore e traduttore italiano. Viene riconosciuto come uno dei poeti e letterati italiani più importanti dell’epoca e di sempre e della corrente neoclassiche e romantiche. La sua vita fu caratterizzata da continui viaggi, anche a causa della sua adesione anche se con grosse critiche, nell’avanzata di napoleone. Foscolo fu grande ammiratore di Vittorio Alfieri che lo considerò un vero maestro, e alla fine dei suoi giorno consegno le sue opere a silvio Pellico, che riuscì a vendere prima del suo arresto. Le sue opere più importanti sono I sepolcri, Ultime lettere a Jacopo Ortis, e I sonetti come Alla sera, A Zacinto e molti altri. Il 6 febbraio del 1778 nasceva a Zante, Ugo Foscolo da Andrea Foscolo e Diamantina Spathis. Muore il 10 settembre del 1827 a Londra a causa di una presunta tubercolosi miliare.

Da’ colli Euganei, 11 ottobre 1797.
Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so; ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho ubbidito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.
“Incipit, Ultime lettere di Jacopo Ortis”