La neve
Tra le pareti la sua ombra si muoveva senza turbare l’essenziale rituale dell’obbedienza. Non ricordava più la luce, eppure doveva esserci, non poteva credere che la sua prima notte racchiusa tra le mura che s’innalzavano lentamente, tagliandola fuori dall’assaggio di vita fosse mai finita, che durasse così a lungo. Non poteva neanche pensare che la camera dove dormiva con i minuscoli gomitoli d’ossa raccolti nelle lenzuola non avesse finestre, che il sole fosse sparito senza preavviso; per quanto si sforzasse vedeva solo le ombre taciturne spostarsi da un luogo all’altro.
Tante volte soffocò l’istinto di avvicinarsi e toccarle, aprire loro la bocca per sentire un solo suono, tirarne fuori la lingua per accertarsi che ci fosse, o dilatare le palpebre per vedere il bagliore degli occhi. Mangiavano in una stanza, camminavano in un lungo corridoio e facevano poi lo stesso percorso di ritorno che conduceva nell’altra dove dormivano.
Ogni giorno una folle e insensata processione per nutrire il corpo, che si era già arreso opponendo un solido rifiuto all’imperativo naturale di crescita, e un’altra di ritorno per riposare dalla fatica di restare prigionieri della vita che non lasciava andare la carne, quando lo spirito e il suo slancio d’infinito si era già ridotto ad un rantolo di candela prima di spirare nella cecità del buio, nella quiete spaventosa dell’assenza di tutto.
Per qualche tempo si adattò alla nuova condizione, passava anche lei ingoiata dalla fiumana dei minuscoli pigiami scalzi da una stanza all’altra, toccando le fredde pareti del corridoio, premendo con i polpastrelli finché il sudore non faceva apparire le sue impronte, rinnovando la memoria di sé.
Vennero giù i sipari sui momenti sempre uguali, cambiando il nome in giorni, settimane e mesi; non vi erano attori e spettatori delle ore che s’inseguivano correndo parallele per finire su binari morti e ricominciare, bensì comparse che recitavano la propria parte imbavagliate pur essendo mute.
Una forchetta cadde.
L’ignara posata scivolò così leggera e ribelle da una mensola della mensa, che il suo tonfo metallico ebbe su di lei l’effetto di uno squillo di tromba. Si destò con meraviglia guardandosi intorno, notando le bocche fameliche unte e macchiate dal cibo, le mani altrettanto sporche andare e venire dai piatti con un sincronismo che la lasciò meravigliata. Cercò la fonte del rumore, poi si alzò per andare a vederla, girando tra i tavolini lillipuziani dove erano accomodati esseri altrettanto piccoli.
La testa urtò un ostacolo. La donna drago con le braccia conserte si fece muro per impedirle ogni altro movimento. Girò il braccio indirizzandola con sguardo duro a ritornare al proprio posto. Riaffiorò con rabbia il primo giorno del suo arrivo, quando le aveva strappato i capelli e l’aveva scaraventata per terra.
Non si mosse neanche stavolta.
Arrivò il suo artiglio a scalfire la faccia una, due, tre volte. Cadeva, si rialzava e tornava ancora in piedi, fissando un punto sul pavimento nel quale si sarebbe inchiodata non sentendo neanche più il dolore, ma il fuoco della disobbedienza che la infiammava, provocando di colpo il disgelo della linfa vitale, colorandole le guance e animandole il petto con un respiro forte. Faticoso, ma terribilmente bello, da non sapervi rinunciare, neanche quando il naso le prese a sanguinare. Gli altri incolpevoli testimoni si avvicinarono a lei facendo d’istinto uno scudo compatto contro la donna drago. Presa da furore questa la afferrò come se volesse scagliarla chissà dove, ma lei non si fece sfuggire l’occasione rara di trovarsi alla stessa altezza, la guardò dritto negli occhi senza tremare e con un sorriso raccolse la lingua a fionda.
Un chiazza di saliva rossa come una freccia si piantò al centro della fronte, marchiando il livore della donna con tutta la disperazione e ribellione di una creatura partorita dalle stelle.
Le sputò in faccia dichiarando la guerra più dura che si sarebbe protratta per anni, non aveva bisogno di una prova, sapeva che sarebbe stato così con incrollabile certezza.
Si lasciò cadere, atterrando in piedi, appena liberata dalla morsa del drago incredulo e accadde un’altra cosa inaspettata. Sentì ridere, tante vocine cristalline sprigionate dalle bocche a lungo mute svolazzavano come farfalle libere rendendo l’aria piena e densa, così densa da sentirla sulla pelle e avere voglia di toccarla con la gioia di chi scopre per la prima volta i sensi. E allora vide di nuovo la luce, era ancora giorno, collocando il momento nello spazio del tempo, deducendo che avevano appena pranzato e non cenato, poi avvertì il pizzicare del freddo sulle braccia e cercando una fonte luminosa notò una finestra alla quale andò ad affacciarsi colpita dallo strano biancore che proiettava. Mise i palmi sul vetro, giocò con il fiato che aggiungeva e toglieva i contorni del mondo fuori.
La neve si lasciò scoprire dai suoi occhi fin dove lo sguardo riuscì a spingersi, con il manto pallido di morte o di vita che pretendeva il suo stupore le diede una lacrima calda e la speranza di una qualche felicità segreta ancora da trovare.
Mirela Stillitano