L’ “empietà” di Socrate
Inizia oggi, e continuerà tutti i sabati, la rubrica di letteratura greca che curerò anche quest’anno. Saranno trattati temi relativi alla civiltà greca antica con riferimenti alle opere classiche e ai diversi periodi della letteratura greca.
Per questo primo sabato ho scelto un filosofo dell’antica Grecia che, con il suo pensiero, ha influenzato in modo determinante tutta la filosofia pagana a lui successiva: si tratta di Socrate.
Egli nacque ad Atene nel 470-460 a. C. Il padre, Sofronisco, faceva lo scultore mentre della madre sappiamo che aiutava le sue amiche durante il parto; il Socrate di cui parla Platone nella sua opera si compiacerà proprio di paragonare la sua attività di aiutare i giovani a dare alla luce i parti della loro mente con quella della madre (Teeteto 149 a sgg). Una tradizione antica che risale a Diogene Laerzio racconta che Socrate in gioventù aveva esercitato, come il padre, l’attività di scultore. Si sposò con una certa Xantippe, dalla quale avrebbe avuto tre figli: Lamprocle, Sofronisco, Menexeno. Un tratto essenziale della sua vita è che egli uscì da Atene solo per compiere il suo dovere di oplita nell’esercito cittadino. Partecipò, anche se saltuariamente, alla vita politica della città e nel 460-5 fu membro della Bulè. Diversi episodi della sua vita, descritti proprio nelle opere platoniche, illuminano sulla sua fermezza di comportamento a difesa della legge contro la prepotenza di una democrazia estremizzata, da una parte, e di un potere tirannico dall’altra.
Nel 399 ebbe luogo il processo che si concluse con la condanna a morte di Socrate. L’accusa, avanzata all’arconte-re, era di empietà (il testo autentico lo desumiamo da Diogene Laerzio), per aver rinnegato gli dei della città. Inoltre l’Ateniese era accusato di corrompere i giovani, di mettere in pericolo le istituzioni democratiche di Atene, di favorire il disprezzo per i poveri e gli umili, di accogliere nella sua persona i difetti e le colpe dei Sofisti.
Non era certamente il primo processo di empietà che aveva luogo ad Atene in quel periodo e non sarebbe stato l’ultimo. Nel 433-2, un’accusa analoga era stata formulata contro Anassogora, il grande filosofo di Clazomene e contro Aspasia, la compagna di Pericle. Nel 425 fu la volta di Diagora di Melo e, all’incirca nello stesso periodo, del sofista Protagora di Abdera. Nel 323 un’accusa di empietà sarà avanzata contro Aristotele il quale si sottrasse al processo perché, disse, gli ateniesi non avessero a commettere un secondo delitto contro la filosofia.
Come si legge nell’opera platonica, di cui parleremo nel contributo successivo, Apologia di Socrate, egli fu riconosciuto colpevole dal tribunale con una maggioranza di 60 voti. Successivamente il tribunale fu chiamato a scegliere fra la proposta di pena formulata dall’accusa (la morte) e quella avanzata dall’accusato. Secondo Diogene Laerzio Socrate offrì in un primo momento un’ammenda di 25 dracme e, poi, di essere mantenuto a spese pubbliche nel Pritaneo. In questa seconda offerta era evidentemente implicito il rifiuto di un atteggiamento ossequioso verso i giudici: era una proposta provocatoria. La decisione del tribunale fu per la condanna a morte del filosofo ateniese che morì, come è noto, bevendo la cicuta.
Antonella Micolani