Ci riprovo con l’amico Fedor, tanto odiato (sono una voce fuori dal coro, lo so) con Delitto e Castigo. Beh, la terza volta (in realtà lessi di suo Le notti bianche anni fa ma ricordo poco e nulla, indice che il racconto mi ha trasmesso davvero poco) è andata meglio. Dostoevskij in questo racconto parla dell’orgoglio, dell’apparenza, del non voler rivelare i propri sentimenti, del suicidio. Narrato in prima persona, il proprietario di un banco di pegni ci racconta dal primo incontro con la moglie, la “mite”, i suoi ostinati tentativi a mostrarsi distaccato e indifferente fino in seguito a pentirsene nei confronti della moglie, fino al suicidio di lei. Incluso nel libro ho letto anche un altro brevissimo racconto di genere utopico “Il sogno di un umo ridicolo”, in cui un uomo si risveglia in una società utopica, pura e ignara del male. Breve ma intenso, Dostoevskij ci parla dei tormenti interiori e dei rimorsi di un uomo la cui coscienza si sveglia troppo tardi. Con questo racconto Dostoevskij guadagna qualche punto.

Luana Indelicato