Se credete che la leggerezza sia l’antitesi della profondità, Muriel Barbery vi farà cambiare idea. Attraverso uno sfoggio di prosa melodioso – lo definirei quasi musicale – riuscirà a convincervi, con un’ironia caustica irripetibile, che l’abito non fa quasi mai il monaco, o per lo meno non nel caso di Renée e Paloma. Renée, 54 anni e un lavoro da portinaia in un lussuoso palazzo parigino, possiede tutte le caratteristiche dell’operaia imbruttita: non cura il suo aspetto, alle domande dei condomini risponde con laconici monosillabi, e l’unico a cui concede attenzioni è il pasciuto Lev, un gatto da appartamento schivo e sedentario. Nel suo intimo, però, nasconde un animo sopraffino, dedito all’arte e alla letteratura e una propensione intellettuale squisita. Al quarto piano vive Paloma, figlia di un importante ministro e delusa dall’insensatezza del mondo. È arguta e sarcastica e, a soli dodici anni, è impegnata nella realizzazione di un’impresa drastica e sconvolgente: l’incendio dell’appartamento in cui vive e il suo stesso suicidio, che dovrà avvenire il giorno del suo tredicesimo compleanno. Le loro esistenze si trascinano stancamente fino all’arrivo nel palazzo di un nuovo inquilino: il signor Ozo, giapponese dallo spirito sensibile e dalla cultura spiccata che farà incrociare i loro destini. “L’eleganze del riccio” non è solo un libro di narrativa, ma un trattato di arte, letteratura e filosofia. È la dimostrazione lampante dell’infondatezza dei pregiudizi di genere, attraverso le esperienze di due protagoniste che racchiudono la voce di tutti i bistrattati e i disillusi del mondo, in un viaggio esistenziale che culminerà con un’unica presa di coscienza: forse, in fondo, c’è ancora qualcosa per cui vale la pena sorridere.

Stefania Russo