Quando con il primo vagito il tempo incontrò la vita e si sfiorarono, si toccarono si contaminarono, entrando l’una nell’altro cedendo la parte migliore o peggiore di sé, cominciò lei ad esistere. Che fosse nata da uomo e donna, senza poterli chiamare un giorno madre e padre, in una notte di stordimento e silenzio di neve o un pomeriggio di cicale assetate dalla luce d’agosto nei prati, il mondo questo lo ignorava, ma lei c’era! Era vita, era anche tempo, era la misura dell’una e dell’altro e figlia di entrambi avrebbe imparato a misurarsi a sua volta per sapere quanto ancora c’era da vivere, da sperare, da trascorrere, forse persino d’amare.
Il tempo, prima ancora della vita, aveva avuto un peso gravoso, un fulcro sgangherato intorno al quale ruotava la sua esistenza. Lo amava e lo odiava, lo tollerava e lo sopportava, ma non sapeva toccarlo senza provare una fitta che dal cuore pulsava fin dentro lo stomaco. Una costante e un’ossessione che le frullava nella testa senza tregua. Prima ancora d’imparare a lasciarsi attraversare, avrebbe voluto fosse breve, che scorresse come la sua ombra colpita dal sole che si spostava con un semplice salto a destra o a sinistra, quando giocava nel cortile della Casa dei bambini o nell’altro di un luogo che chiamava ugualmente casa, senza che nessuna delle due realmente lo fosse. Doveva passare, andare veloce e svelto perché troppo dure erano le prove che per lei erano state scritte.
C’erano degli attimi rari in cui invece non aveva nessuna fretta e sarebbe arrivata persino a pregare che il tempo si fermasse. Erano i momenti in cui sollevava la prospettiva del suo sguardo e vedeva suo padre. Si era resa conto che tutti gli adulti che la circondavano avevano solo voce. Era rozza, urlante, gracchiante, fastidiosa e cattiva. Piccola di statura ne vedeva le gambe, il tronco, le braccia, fermando gli occhi all’altezza del collo quando sentiva che poteva bastare, che non voleva dare loro dei volti da ricordare. Nessuno aveva mai fatto nulla per imprimersi nella memoria delle cose da salvare e prima o poi persi in quelle centinaia di corpi decapitati si sarebbero confusi gli uni con gli altri per svanire del tutto, lasciando la traccia del male.
Poi c’era lui, quell’ombra che appariva e scompariva, imprimendo nell’aria la sua scia di qualche distillato etilico ignoto, l’aroma del suo cuore spremuto e stritolato nel vizio del suicidio al rallentatore.
Quando si svegliava nel dormitorio durante la notte lo rivedeva continuamente girare lentamente le spalle prima di lasciarla lì qualche anno prima, con la testa bassa avanzare verso il cancello, mentre lei come una belva ferita gridava trattenuta da mani sconosciute con le dita che affondavano nella sua carne. Credeva che non lo avrebbe più rivisto e ogni volta che lo avrebbe rincontrato durante le pause estive avrebbe continuato a crederlo e temerlo. Lui era senza vita e senza morte, c’era e non c’era, ma aveva un volto, aveva degli occhi nei quali lei avrebbe indagato con disperazione in cerca di una risposta, aveva mani delle quali non ricordava carezze, ma neanche dolore, e poi due braccia che l’avevano sollevata da terra chiudendola in un abbraccio al quale si sarebbe aggrappata nei lunghi periodi in cui invece sapeva che non l’avrebbe rivisto. Era accaduto, sì, ne era certa, e per ben due volte. La prima volta accadde quando scappò dalla sua casa in piena notte, perché l’aveva sentito urlare, l’aveva visto piangere e gemere come un bambino e non poteva perdonargli di non riuscire mai ad essere la sua roccia, l’albero al quale appoggiarsi per non cadere.
Aveva provato pena per lui e poi pena per se stessa, perché sentiva quanto fosse profondamente ingiusto che non volesse essere il suo eroe, quello che salvava la piccola principessa, per quanto somigliasse più a un monello del volgo, da quel drago che voleva divorarla. Lei aveva un gigante raggomitolato che delirava e vomitava la sua stessa vita, che barcollava e poi crollava per terra tramortito. Le venne in mente allora di gridare e piangere più forte di lui, di fare in modo che sentisse la sua presenza, ma ottenne in risposta un urlo dalle sue viscere tormentate e infiammate e si spaventò. Cominciò a correre, correva per arginare tutte le piene, con l’aria fresca della notte lontana dall’alba che le colpiva il viso. Andava senza meta, ma seguendo l’istinto di sopravvivenza aveva scelto di percorrere la strada asfaltata, così da riconoscerla sotto i piedi infreddoliti e avere comunque una percezione di dove andare.
Infine rallentò la corsa. Si fermò e rimase immobile nella strada, finché non sentì dei passi dietro di sé. Aveva il cuore in gola per la paura, poteva accaderle di tutto, poi pensò che non poteva essere peggio di quanto già vissuto e attese. Sentì un respiro grosso e affannato dietro la nuca, che piegò come un animale offerto in sacrificio. La sua voce arrivò debole, ma la riconobbe, diceva il suo nome, e allora pianse e si voltò stringendogli le gambe magre con tutta la forza che aveva in corpo. La sollevò e l’appoggiò al suo petto e lei gli si aggrappò al collo. Due relitti si erano trovati nell’oceano nero della notte e si stringevano per non affondare, si trascinarono per qualche metro prima di sprofondare sull’erba davanti a quella che nei suoi ricordi sarebbe rimasta l’unica vera casa di allora, anche se era rimasto poco più di un tetto per ripararsi dalla pioggia, senza vetri alle finestre e una porta che si poteva soltanto immaginare tenuta insieme da qualche asse di legno inchiodato. Per quella notte fu il suo castello e lui il suo re che la teneva stretta e mandava via tutte le paure e andava dentro a prendere l’unica trapunta rossa e blu per ripararla dal freddo. Rossa e blu, come l’errore e il suo rimedio, come la realtà e la possibilità, come la vita e il tempo da impiegare per correggere la discesa delle lacrime, come l’amore che si faceva negare e poi chiedeva di farsi perdonare. Rimasero stretti finché non apparve la falce luminosa sotto i loro occhi e lui raccontò per farla addormentare che un uomo era stato lassù e lei si mise a sedere dicendo che voleva andarci. Tamburo lento, tamburo violento, come cambiò il ritmo del cuore quando percepì per la prima volta il loro sangue nelle vene con lo stesso codice di dolore! E non importava niente, avevano un legame che li avrebbe uniti per sempre, erano stati padre e figlia per un momento e questo poteva salvarlo e custodirlo nella memoria. Si guardarono come si vedessero per la prima volta: stessi capelli, stesso naso, stessa bocca e stessi occhi neri. La rimise a dormire e convinto non potesse sentirlo disse sottovoce che in cielo e in terra poteva somigliarle solo la luna. Meritava di più e non lo aveva saputo dare.
All’alba si dissolse nella nebbia.
Mirela Stillitano