L’estate era finita. Una delle tante che passava al ritmo di un treno merci troppo carico e in corsa sui binari sgangherati della sua esistenza, si era portata via anche quella qualcosa con sé, come sempre. Il tempo le avrebbe reso tutto indietro, lo sperava anche stavolta.
In un giorno di settembre, quando le foglie cambiavano colore e rappresentavano la fine della sua libertà provvisoria, suo padre aveva fermato all’alba un camionista sbadigliante e l’aveva caricata sul mezzo, salutando con un gesto che somigliava ad un addio silenzioso. Solo addii frettolosi li legavano e con il cuore ormai indurito non cercarono mai di avere qualcosa di diverso, però sapevano che c’era di più senza doverlo dire. Le parole che non si erano detti erano sempre lì, il loro segreto tra le stelle con Gagarin e la cagnolina Laika. Nessuno poteva toccarle.
Imboccò il viale che portava all’androne della Casa, consapevole che anche quello era il posto dove doveva stare senza obiettare.
Quando arrivò al portone, vide al di là della lastra trasparente volti che conosceva ormai da diversi anni e tirò un grosso sospiro.
Ci provò, senza riuscirci. Fu scossa da una tosse convulsa, ormai nota, che le aveva fatto compagnia per diversi mesi di sole pieno e caldo. Mise le mani davanti alla bocca per non farsi sentire, ma non si arrestava e la spossava sempre più. Proprio nell’androne vi era un’infermeria gestita da una donna in camice che presidiava l’ingresso e si affacciava curiosa dalla piccola finestra che le consentiva di controllare l’entrata e l’uscita di chiunque. Era stata fortemente voluta dal Direttore, l’Illuminato, come sarebbe stato registrato dalla sua mente negli anni a venire. Era un uomo bello, pieno di luce, grande come un gigante, amava tutti i bambini che accoglieva, così le piaceva immaginare, perché li invitava a guardare in Tv nell’anticamera del suo studio le partite della Dinamo di cui era tifoso. Anni dopo in quella stessa anticamera avrebbe atteso da sola una risposta dal suo futuro, indossando fiera la sua tuta di un verde acceso, che la faceva sentire una bambina speciale e ben vestita per una volta, anche se puliva il naso colante con il dorso della manica e nascondeva dietro la schiena l’intero braccio per timore di essere scoperta.
Il camice bianco spalancò la porta e andò a toccarle la fronte assumendo un’espressione preoccupata. Prese un oggetto freddo che le appoggiò sul petto e sulle spalle. Lo lasciò cadere e fece un passo indietro. Mise le mani avanti quasi a dirle di allontanarsi anche lei e con tutta la voce che aveva in corpo chiamò dei nomi che riconobbe, da tanto li aveva sentiti. Senza realizzare un come e un perché si ritrovò a fissare un palazzone grande con tante sirene che ululavano.
Un ospedale! Magnifico, le venne da dire quando sollevò gli occhi sulla muraglia di cemento che si ergeva maestosa e piena d’indiscreti sguardi di vetro ad affacciarsi.
Trasportata in ambulanza, addirittura! Pensò che non fosse poi così grave e che l’avevano chiamata per sbarazzarsi dell’inconveniente di accompagnarla. Fu poi guidata direttamente con le sue gambe in una stanza che puzzava terribilmente di medicine ignote. Vari flaconi in disordine arredavano una scrivania malferma, che sarebbe bastato persino uno dei suoi invisibili mignoli a far traballare e dietro un altro camice bianco la scrutava con aria interrogativa. Si avvicinò a lei, disse parole che non capiva, probabilmente parlava di qualche sua presunta malattia che le aveva compromesso cuore e polmoni. Le chiese, quasi ridendo, se preferiva lo sciroppo o le punture.
E lei piegò la testa sul lato sinistro, come faceva sempre quando volentieri avrebbe mandato al Creatore qualcuno e con lo stesso sorriso ironico scrisse sulle labbra “quello che vuoi, tanto farai come vuoi”.
La accompagnò un’infermiera con il passo svelto al suo letto in una camera spaziosa. Non aveva portato niente con sé, indossava ancora i vestiti del viaggio di ritorno. Avevano tra le fibre l’alito al distillato o qualche altro intruglio alcolico di suo padre, l’impronta della sua mano sulla spalla: l’ultimo gesto prima di chiudere la portiera e affidarla ad uno sconosciuto di passaggio, perché la riportasse dove lui stesso l’aveva lasciata anni addietro, sfuggendo a tutte le domande di quegli occhi furiosi e traditi che tanto somigliavano ai suoi.
Vi rimase in quella camera qualche settimana.
Sarebbe passato, doveva passare. Tutto era passato, anche se lo aveva calcolato con le volte che dalla mattina fino al cuore della notte era stata rivoltata da una parte all’altra per le iniezioni, senza alcuna grazia, come fosse una cosa inanimata.
Anche lì un’altra routine, altri giri di orologi che andavano per proprio conto, interrotti un giorno da un barattolo di marmellata.
Era una domenica, diversa dalle altre, perché al mattino la stanza si riempì di persone, visitatori emozionati e commossi che stavano ognuno accanto al letto di altri pazienti come lei. Non aveva mai considerato la loro presenza; se lei non esisteva per gli altri, gli altri non dovevano esistere per lei. Mai si era sentita così sola e inutile.
Una donna si fermò indecisa accanto al suo letto, lei si strinse nelle lenzuola quasi spaventata, tirandole fino al mento. Brandiva in una mano un barattolo con dentro qualcosa di scuro, lo aprì mostrandolo e sentì pervadere le narici dall’aroma intenso delle more.
Abbassò il lenzuolo per sentirlo meglio, pregustò quasi il sapore di quella marmellata proibita. La donna la fissò stordita e comprese di essersi sbagliata.
Richiuse il barattolo e si spostò andando in fondo alla stanza, dove dormiva una bambina come lei. Si appoggiò sul bordo, carezzando la testa di quell’essere rapito del sonno e che si risvegliò di colpo. Le vide abbracciarsi, darsi baci e poi piangere e ridere insieme. Mani sul viso e baci sulle guance, occhi negli occhi, quegli occhi così carichi di qualcosa che non conosceva, la privarono di tutte le forze. Doveva essere dolce come la marmellata quello sguardo che sembrava racchiudere dentro tutto l’amore immaginabile. La marmellata non era per lei, neanche l’amore.
Si strinse portandosi le ginocchia al petto e si voltò di lato verso il muro, odiando quelle persone ridicole che disturbavano senza permesso la sua solitudine.
La stessa notte, dopo essere stata risvegliata bruscamente per l’iniezione, portarono in camera una giovane con una pancia enorme, sembrava sul punto di esplodere. Si lamentava per chissà quale dolore, tutto doveva darle un insopportabile fastidio per come si contorceva. Non vi erano letti disponibili, così la fecero distendere nel suo, tanto minuscola com’era non aveva da risentirne. La presero di peso, senza il minimo sforzo e la misero all’altro capo del letto. Aveva i piedi della ragazza sul viso. Doveva essere una partoriente, ne aveva viste altre dimenarsi così, come quando quella stessa estate aveva sorpreso la vicina partorire l’ennesimo figlio nel prato davanti casa e rialzarsi con un essere sporco e urlante come se niente fosse. L’esperienza doveva averla temprata molto o forse la rassegnazione di non poter essere nulla di diverso da una macchina con gambe e anima divaricate a distribuire vite riducendo di volta in volta la propria.
Fu riportata al presente dalle urla e dai piedi che continuavano a urtarle il viso. Avrebbe voluto spingerla e farla cadere, non aveva diritto di occupare il suo spazio e ancora meno di soffrire, ma si fermò quando si ritrovò la mano su quei piedi scalcianti. Provò dispiacere, li accarezzò come aveva visto fare quel giorno e il moto delle gambe si fermò, insieme al suo cuore. Si sollevò sul letto e toccò con entrambe le mani quel ventre dolorante. Non la ragazza, non lei, nessuna delle due disse nulla. Non era quel dolore presente che lei consolava ma quello che stava ancora in grembo, quello che ancora doveva venire al mondo. Perché lì un giorno c’era stata anche lei e prima di essere catapultata e abbandonata in quella vita così irreale avrebbe voluto sentire quel tocco, almeno una volta, pieno della promessa che baci e sguardi dolci alla marmellata avrebbero riempito tutti barattoli vuoti della sua anima.
Mirela Stillitano.