Scosse la testa, lo spettacolo era finito per tutti, il sole di mezzogiorno aveva calato il suo ardente sipario, bruciando gli ultimi residui di un delirio collettivo. Non voleva rientrare a casa, poi sbirciando di lato vide la stradina che conduceva al viale dei pioppi.
S’incamminò strizzando gli occhi per il fastidio della troppa luce. La casa confinante spandeva profumi di un pranzo pronto da assaggiare in tavola, tutte le altre pure. Qualche volta anche la sua aveva partecipato, si disse, provando a ricordare quante.
Dilatò le pupille, le dita sottili si fermarono nella conta.
Guardò il suo cortile, con le erbacce e la sterpaglia che avevano ormai conquistato tutto in una trionfale dichiarazione d’indipendenza, i rovi e gli alberi piegati, appesantiti dalla mancanza di cure. Era rimasto ancora qualche pezzo di rete, che andò a toccare infilando e sfilando l’indice giocando come fosse un anello. Relitti di altre vite prima della sua… che avevano abbandonato quei luoghi in tutta fretta lasciando eterna nell’aria l’impronta. Poteva ancora scorgere un’ombra piegata a dissodare la terra, sentire il movimento della foglia aggrappata al ramo potato, il rumore della rete intatta appena fissata ai pali, l’abbaiare di un cane tra le gambe del padrone, lo sgambettare allegro di un bambino, un martello battere il chiodo sulla porta di un futuro da custodire e riparare dal freddo, la noce cadere al suolo e rotolando diventare il gioco di qualcuno, l’allungarsi di una figura sulla parete che appariva e scompariva.
Sentì tirare il braccio e si accorse di averlo infilato nella rete graffiandosi e lacerandosi fino al gomito. Chissà cosa le era passato per la testa in quel momento!
Sarebbe andata al fiume per lavarsi e magari rimediare anche un tuffo per rinfrescarsi.
Vide nel campo vicino l’uva fragola quasi matura, ne aspirò il profumo inalandolo fino ai polmoni. Non era stata furba.
Tutti gli anni andava a mangiarla lasciando le tracce del suo passaggio, seminando le bucce ovunque e il proprietario ormai stufo l’aveva recintata.
Non che questo fosse un problema, nessun ostacolo poteva fermarla e avrebbe impiegato poco ad andare dall’altra parte e fare scorta. Poteva anche scavare da sotto o trovare un varco a sua misura, ma il recinto restava lì come un muro, un monito che si univa ai tanti veti e confini, chiusi per lasciare soltanto lei fuori.
S’indispettì, volle tirare giù tutto, non era per la fame, non per il desiderio dell’uva, neanche per la voglia di rubare, era più di quello che lei poteva capire.
Lasciò perdere, aumentò il ritmo dei passi, scivolando accanto ai pioppi con una fitta di nostalgia: non riusciva più a sentire il loro canto e guardando tra i rami si accorse di essere capace di restare indifferente alle loro foglie cangianti. Come poteva ancora sentire così forte la mancanza di un affetto svanito troppo presto, di un legame spezzato con degli alberi? Li aveva amati tanto e non aveva accettato ancora di unirli ad un ricordo di morte.
Rivide nella memoria il funerale della ragazza morta lì vicino l’anno prima, con il lancio dei fiori e le monete al suono straziante di un violino, mentre lei e altri bambini rincorrevano il carro funebre e le mani si riempivano per poi svuotarsi nuovamente. I genitori avevano cucinato tutto quello che avevano in casa, costruendo tavoli improvvisati e lasciando che chiunque potesse, mangiando insieme a loro, nutrirsi dello stesso dolore, perché ciò che riempiva lo stomaco non poteva mai guarire il cuore di nessuno in quella valle. Festeggiavano la morte celebrando la vita, annaffiando con il vino le labbra che avrebbero patito l’arsura per le guance, che non avevano più da baciare.
Si alzò il vento e sentì bruciare il braccio ferito, ma non riuscì a distogliere la mente dalle due figure addolorate. Un uomo, il padre, l’altra… l’altra, l’altra… il pensiero balbettava e faticava a collegare il nome. Rifiutava di pronunciare la parola madre, aveva cancellato ogni cosa che potesse anche solo lontanamente ricondurne l’esistenza a lei. Tutti potevano averne una, due, cento, lei non solo non voleva averne, ma neanche accennarne l’esistenza nelle parole. Se una madre c’era per lei, era in tutto il mondo che la circondava, che l’avvolgeva con le sue lunghe braccia, come un’entità invisibile che non era fatta di carne e ossa.
La Grande Madre era l’Universo intero e tutto ciò che ai suoi occhi poteva offrire da vedere o alla sua mente dare da pensare. A lei tornava per cercare consolazione, giocando con le nuvole a comporre disegni nel cielo, contando stelle e lacrime per togliere lavando gli occhi tutto il male, saltando come un animale libero tra i rami degli alberi con la pancia saziata cogliendo un frutto ogni volta diverso, lasciandosi cadere senza peso aggrappata alle liane e dondolando nel vuoto in una culla immaginaria, unendo le mani sotto l’acqua nel fiume per giocare con i pesci, imitando gli uccelli spalancando le braccia per imparare a volare, correndo per i campi in una fuga che non aveva nessuna meta o forse questa era da qualche altra parte, stendendosi a terra per guardare le formiche o coccinelle e insetti tra l’erba affascinata dall’esistenza di un microcosmo così variopinto. Sentiva la sua voce nella pioggia e l’ascoltava come un bimbo la fiaba della buonanotte.
Qualche volta si fermava lasciandosi investire dal vento, pregando la sollevasse per portarla via e in quei momenti si chiedeva come potesse esistere qualcosa che non poteva vedere, ma sentire così bene. Lo inseguiva, correndo più forte, notando come cambiavano tutte le cose che toccava e, arrivata a vedere il grano piegarsi, guardava la mano invisibile del vento accarezzarlo. Il grano si lasciava toccare senza resistenza appagato dalla carezza, poi si risollevava tornando alla forma originaria e allora il vento di nuovo riprendeva il tocco più forte imprimendo un solco più profondo e ancora il grano si piegava cedendo alla sua forza per rialzarsi. Non era sicura di cosa fosse, a cosa potesse somigliare il gioco del vento con il grano, ma la lasciava spossata, colma di terrore e di gioia come tutte le cose ignote.

Mirela Stillitano